Il Foro di Livio

E venne pioggia grande

Il secco e un insolito tepore sono la cifra di quest’ottobre. Nel 1666, le precipitazioni sono chiamate dal Fuoco

La statua della Madonna del Fuoco in cima alla colonna di piazza del Duomo

Questo mese autunnale si è rivelato piuttosto caldo e avaro di piogge. Ora, si torni indietro nel tempo e ci si proietti nella Forlì di sabato 3 ottobre 1666. Che cosa avrebbe visto un forlivese, quel giorno? “Essendo stato un gran secco un gran pezzo” così dicono le cronache, fu esposta la Madonna del Fuoco. Si apre dunque un ciclo di riti dal timbro secentesco, con coinvolgimento di tutte le parrocchie allora esistenti a cominciare dalla comunità di “San Biaso”. Si vedevano i “monsignori canonici” e i “magistrati”, nella cappella della Madonna del Fuoco “ingenochiati”. Il custode della Sacra Immagine, il canonico Menghi, aiutato dal sottocustode don Giovanni Monti, accolse la folla dando la “benedizione al populo”. Intanto, fuori suonavano le trombe, i tamburi e si udiva lo sparo di archibugi secondo perfette suggestioni barocche. All’interno, si incensava “more solito”, anzi, a dire il vero “triplice ductu”. E poi, “finite le litanie e il mottetto ciascuno andò in pace”.

Il lunedì mattina, dopo la messa delle nove celebrata dal Vescovo, fu prevista una processione “con grande concorso di populo”: la Madonna fu fatta girare intorno alla Cattedrale per poi dirigersi verso Santa Maria della Ripa. Il corteo raggiunse quindi “il vicolo che conduce alla porta di dietro delle Monache della Torre” e “arrivati alla chiesa di dette Monache entrorno”. Le autorità (Vescovo, Capitolo della Cattedrale, Magistrato, Governatore, Sacro Numero dei Novanta Pacifici) fecero “ben vedere” l’Immagine miracolosa alle monache di via della Ripa. Poi andarono alla Trinità “nella quale entrò la Processione tutta”. Usciti dalla Trinità, si percorse Borgo Schiavonia fino al Duomo. La sera venne la parrocchia di Sant’Antonio di Ravaldino, poi “la villa di Malmissole” che “portò buona elemosina” con “il suo prete don Giovanni Gallicelli”.

Giovedì dopo giunsero “li fratelli di Santa Marta del Canale”, una certa “Apolonia”, poi “una o due maestre con le sue putte”, il rettore Bartolomeo Aspini con la parrocchia di santa Maria in Schiavonia “con grossa offerta di denari e cera”, e ancora “li fratelli di Santa Marta dei Servi”. Infine, “la compagnia dei Battuti Rossi con offerta, alli quali si cantorno le litanie solenni con mottetto”. Venerdì si sarebbe dovuta fare la seconda processione ma “il giovedì a mezza notte comminciò a piovere acqua miracolosa”. E durò “tanto il venerdì mattina che no si puoté fare la processione”. Tuttavia, nel pomeriggio, arrivarono gli omaggi della parrocchia della Trinità. Dopo questa arrivò la comunità di San Mercuriale “con grandissima gente” e più tardi si videro pure i Battuti Verdi. 

Sabato mattina la pioggia cessò e seguì la seconda grande processione (oltre a chiedere, bisogna pur ringraziare): dalla Cattedrale “pigliò verso il Borgo di Schiavonia”, “tirò al Ponte del Murattini e voltò la strada de li Battuti Verdi”, passò quindi dalla “Madonna del Ponte” per raggiungere la chiesa di Sant’Agostino passando dal “muraglione delle Monache di Santa Caterina” (per chi si fosse perso, questo tratto, secondo le coordinate attuali, corrisponde alle vie Lazzarini, Zauli Saiani, piazza fratelli Rossini, via Cia degli Ubaldini, piazza Dante Alighieri). Entrò quindi in Sant’Agostino dove l’Immagine della Madonna del Fuoco fu riposta su “un honorato tavolino”. 

Seguirono le “preci pro gratias” e “come anco nelle processione si cantò il Te Deum”. Il Vescovo “pigliò la stola bianca” e don Monti, il sottocustode, “diede al canonico Menghi” l’Immagine della Patrona. Costui, tenendola in mano, impartì la benedizione “al populo” per poi riporla. E dopo questo, “ciascuno andò in pace, benché piovesse”. Benché piovesse: giusto ripeterlo perché è detto senz’alcun’enfasi. 

Più tardi avvenne che “incirca una hora di notte le Monache di San Domenico mandorno l’offerta”, cioè libbre di cera per la Cattedrale. Subito dopo, al mattino, fu il turno dei fedeli della “villa di San Tomè”: “huomini, donne e putti, e putte bene ordinati”, cantarono le lodi e “un bel mottetto”. Finito ciò, “il sig. Don Gioseffo Reggiani disse l’oratione” ch’ebbe termine quando, “con la campanella della capella si sonò l’Ave Maria”. Fu quindi coperta la Madonna, s’intonò il Te Deum e se ne andarono tutti “in pace”. Da Sant’Agostino si procedette in corteo verso la chiesa di San Domenico, per poi passare “dalla sua casa dove fece il miraculo” (in via Cobelli), casa che ancora, quindi, non era la chiesina come oggi si vede, sebbene fosse “molto bene addobbata”. 

Raggiunto il Borgo Schiavonia “vennero i Battuti Turchini” e si videro anche “le putte del Marchese Albicini” in compagnia con “una delli signori Maseri”. I riti si ripeterono con ostinazione e speranza, testimoniando una fede radicatissima. Non sempre il testo manoscritto risulta di facile lettura ma chi fosse curioso può scartabellare nel Fondo Dall’Aste Brandolini conservato all’Archivio di Stato. Successivamente si capisce che si aggregarono “la villa del Ronco e della Selba”, con “huomini e donne”, e “portorno buona offerta di denari e di cera”. Poi fu il turno della parrocchia di Santa Lucia. Dopo il vespro si radunò un’altra processione in cui vennero “ad offerire” i Battuti Bigi, i Battuti Neri e i Battuti Bianchi. La processione serale, però, fu interrotta perché “venne pioggia grande”. 


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