La domenica del villaggio

Storie di ordinaria femminilità: Elisa Guidi, il lavoro in fabbrica, le figlie da crescere, la difesa dei diritti

Il racconto di Elisa: "Quello in fabbrica è lavoro comunque pesante e se l’azienda è di piccole dimensioni il futuro non è garantito. Talvolta il rapporto con il padrone pesa. Quello in un industria strutturata, invece, ti consente prospettiva, ti offre sicurezza. A quello puntavo"

Elisa Guidi

Lavoro femminile in fabbrica. Ne so poco, me ne dolgo. Ho ricordi di persone, non di ambienti di lavoro. Da bambino, assieme al mio amico Glauco, andavo con la canna da pesca nel canale, a Meldola. Affondati nell’acqua c’erano vecchi stalli di pietra al cui interno si calavano le donne per lavare i panni nella corrente. Molte di loro erano operaie, arrivavano con ancora addosso i grembiuli di fabbrica. Lavavano per figli e mariti, ridevano, conversavano ad alta voce. Trasmettevano energia e buon umore, ero troppo piccolo per capire quanto fossero intense le loro giornate. Più avanti frequentavo ragazze che erano state mie compagne alle medie e che avevano smesso di studiare, più per necessità che per scelta. Erano operaie, coetanee ma più adulte di me: la fabbrica insegnava cose sull’esistenza che a scuola non si apprendevano. 

Da allora, più niente. Ricordo gli anni in cui la fabbrica era oggetto di studi sociologici, termometro dei flussi elettorali e luogo immaginifico della riscossa di classe. Adesso m’accorgo di non saperne nulla. La fabbrica, nel sistema della comunicazione, è passata di moda. Eppure, esiste e come. Ecco perché ho chiesto a Maria Giorgini, vulcanica segretaria della Cgil di Forlì e Cesena, la cortesia di presentarmi una donna che lavora in fabbrica. Così ho conosciuto Elisa Guidi, che mi ha lasciato gran impressione. Sorridente, risoluta, sguardo rivolto al futuro. Modi franchi, lessico inappuntabile, garbo, nessuna reticenza. Per questa conversazione l’ho incontrata martedì scorso nella sede della Cgil di Forlì. Sarei rimasto a farle altre domande, ma lei dopo il lavoro corre a dare una mano con i bambini alle due figlie, entrambe prese da lavori impegnativi. Le giornate delle donne sono lunghe. Almeno questo, dai tempi in cui pescavo nel canale, l’ho imparato.

Elisa, da dove viene?
Babbo di Fiumana di Predappio, mamma milanese. Per ragioni familiari girammo parecchio. Sono cresciuta nell’hinterland milanese, ho frequentato le medie in Alto Adige, poi siamo tornati a Fiumana; l’ambientamento non è stato facile. Da adolescente capì che l’esigenza era che mi trovassi un lavoro. Andai alla cantina Pandolfa per la raccolta dell’uva, poi in un’altra azienda agricola. Ma si trattava di impieghi stagionali e a me serviva un lavoro stabile.

Lo trovò?
Feci ricerca di lavoro porta a porta, mi presentavo nelle fabbriche e chiedevo se serviva un’operaia; mi è capitato in diversi periodi della vita. Nel 1982, l’estate dei mondiali di calcio vinti in Spagna, avevo sedici anni, cominciai a lavorare in fabbrica: in un tomaifico, poi uno scatolificio, poi in un’azienda che produceva abiti da lavoro. Per una ragione o l’altra i rapporti s’interrompevano, anche se, come dicevo, cercavo stabilità.

La vita, intanto, come procedeva?
Nel 1985 mi sposai, avevo diciannove anni. Quell’anno nacque la prima figlia. Alla scadenza, il contratto di lavoro non mi venne rinnovato perché ero in cinta. Allora quelli erano comportamenti abituali da parte dei datori di lavoro; io stessa, come tanti, li trovavo inevitabili. Non avevo percezione dei diritti sindacali o di quelli legati al lavoro femminile. Non mi fasciai la testa, il mio problema era crescere le bambine, pensando al domani. In un’azienda a Forlì la paga tardava ad arrivare, me ne andai per mia scelta. Sapevo lavorare a maglia, mi organizzai facendolo in casa.

In testa aveva sempre la fabbrica?
Quello in fabbrica è lavoro comunque pesante e se l’azienda è di piccole dimensioni il futuro non è garantito. Talvolta il rapporto con il padrone pesa. Quello in un industria strutturata, invece, ti consente prospettiva, ti offre sicurezza. A quello puntavo. Lo trovai, finalmente, a Forlì, nel 1999, alla Zanussi, che da tempo si chiama Electrolux, ove lavoro ancora oggi.

Come cominciò?
Mi ero fatta l’idea che per essere assunte in un posto come quello occorressero raccomandazioni, di cui, ovviamente, non disponevo. Non ero fiduciosa, ma la vita mi aveva insegnato che scoraggiarsi serve a nulla e peggiora le cose. Presentai domanda, con mia sorpresa venni immediatamente chiamata per un colloquio. All’epoca dopo il colloquio si era sottoposti ad esami riferiti alla salute personale, ovviamente quelli consentiti dalla legge. Poi si facevano 12 giorni di prova e, se tutto andava bene, si veniva assunti a termine. Così avvenne.

Differenza di trattamento tra donne e uomini?
No. So che in passato le cose, nelle fabbriche, andavano in un certo modo, ma non ho vissuto quelle epoche. Normativa e prassi aziendale escludevano già allora discriminazioni. Venni assunta come operaia alla catena di montaggio, mansione affidata indistintamente a donne e uomini.  Ovviamente, l’ambiente che descrivo è riferito a una grande azienda, ove i diritti dei lavoratori sono oggetto di attenzione approfondita. Già quando venni assunta, nel 1999, alla Zanussi esistevano presenza e  tutela sindacali.

Altrove non è così?
Parlo di quel che ho riscontrato nella mia esperienza. Ripeto anche che gli ambienti non sono tutti uguali. Vuole un esempio?

Magari. 
In luoghi ove lavorai non esisteva la possibilità durante la giornata della pur breve cosiddetta pausa caffè e neppure di quella necessaria per andare in bagno. La catena di montaggio non poteva essere interrotta. E, mi creda, dopo qualche ora di lavoro le braccia dolgono, nasce la necessità di fermarsi un attimo, di sgranchirsi e di distrarsi. Siamo persone, non macchine. Oggi in molte aziende, certamente in Electrolux, è prevista una pausa di cinque o dieci minuti ogni novanta minuti di lavoro ininterrotto. La catena si ferma, ci si allontana brevemente e poi si riprende tutti assieme.

Da quel 1999 in cui fu assunta è cambiato il clima interno?
Moltissimo sotto il profilo della organizzazione aziendale. Informatica e automazione hanno stravolto il mondo intero, dunque anche la fabbrica. C’è una dizione, toyotismo, che non è molto bella, ma che sintetizza il concetto. Deriva dall’esperienza di Toyota, la prima grande azienda a innovare. Un lavoro  più snello rispetto al secolo scorso. Comporta anche una modifica dei ruoli interni affidati alle persone. Ma è evoluto anche il convincimento culturale. Ad esempio, e torno ad una sua domanda precedente, oggi in fabbrica ci sono molte più donne team leader rispetto al passato. Ed esistono più possibilità, ad esempio, di usufruire del part-time, o altri istituti, da parte di donne  e uomini.

In fabbrica c’è possibilità di crescere cresce professionalmente?
In fabbrica il lavoro è  in gran parte standardizzato, il processo produttivo ha le sue regole. È possibile, tuttavia, evolvere. Da tempo ci sono operai diplomati, talvolta laureati. Le grandi fabbriche aprono la ricerca di nuovo personale anche al proprio interno. In Electrolux succede che un operaio diventi capolinea o che passi in ufficio.

C’è la sensazione di contare meno, come blocco sociale, rispetto al passato?
In fabbrica ci sono sempre meno persone della vecchia generazione. I giovani non hanno percezione di un passato in cui gli operai rappresentavano riferimento nell’immaginario collettivo. Non potrei  affermare che oggi sussista la sensazione di costituire un blocco sociale compatto. Forse, più in generale, anche all’esterno è venuto meno il senso di comunità. Non riguarda solo gli operai ma gran parte della società.

Quando e come è cominciata la sua attività sindacale?
Tatiana Gentilini, che operava in Cgil, nel 2009 mi coinvolge: non avevo mai pensato a un’esperienza del genere. Mi candido alla Rsu aziendale per la Fiom. Avevo dubbi sulla mia preparazione ma il mio convincimento era: parto da zero, posso solo migliorare. Raccolgo 24 voti, vengo eletta. Mi accorgo che fare la delegata di fabbrica mi realizza. Scopro che si  imparano cose nuove ogni giorno.

La percezione dei colleghi?
Da subito, quando vieni eletta, pensano che tu sappia tutto, che tu possa risolvere qualsiasi problema. La cosa un po' ti spaventa, ma ti responsabilizza, ti da spinta. Noi delegati affrontiamo questioni non solo sindacali, ma anche necessità quotidiane dei lavoratori legate alla burocrazia, alla tecnologia, all’informatica, alla salute.    

La contrattazione? 
Quando mi trovo a negoziare cerco di avere chiaro cosa abbiamo sul tavolo e mi dico che l’obbiettivo è trovare equilibrio tra le aspirazioni legittime e ciò che è effettivamente possibile. I lavoratori a volte non accettano questa ricerca di equilibrio, è comprensibile sia così.  Dall’altra parte del tavolo c’è un managment preparatissimo, è una sfida ma è anche un bene. Dirigenti all’altezza sono una garanzia, per il presente e il futuro dell’azienda e dei lavoratori.

Soddisfatta?
In termini di consenso tra i colleghi ho visto aumentare i voti indirizzati alla mia persona. Ne sono orgogliosa, mi da il senso d’essere sulla strada giusta. Nelle questioni ho sempre messo la faccia. Non ho mai raccontato balle, non ho creato attese che sapevo essere non realistiche. 

Che effetto le fa sentire di ricorrenti crisi occupazionali?
Sono privilegiata, lavorando in Electrolux non ho mai davvero avuto paura di perdere il lavoro. La nostra azienda per questo è garanzia. Poi noi operai, in genere, sappiamo che corriamo sempre il rischio di diventare un giorno un esubero. Condizione drammatica, triste, umiliante. La grandi crisi internazionali, ultima quella del Canale di Suez, con gli scenari anche economici che potrebbero evocare, ci fanno sempre dormire preoccupati. 

Le prospettive?
Le cose cambiano, i fattori sono diversi. In Electrolux facciamo elettrodomestici. In epoca Covid in azienda producevamo due milioni di pezzi in un anno, la richiesta del mercato era molto aumentata. Per contro, oggi l’Europa, per ragioni  di tutela ambientale, ha preso a riciclare gli elettrodomestici esistenti. Sono fattori. Come lo è che in diverse grandi aziende si è arrestata la corsa a delocalizzare verso Est, visto che in quei Paesi si trovano meno operai specializzati. In Italia incide maggiormente il costo del lavoro, di conseguenza le imprese tendono ad aumentare la produttività delle catene di montaggio. Fattori diversi, scenari complessi. Tutto è in divenire.

Ha due figlie. Una è laureata in psicologia, l’altra è neuro chirurgo. Al di là dell’orgoglio di mamma che immaginiamo, che sensazione le da?
Mi fa riflettere sul fatto che tutti dobbiamo fare il possibile per  avere la possibilità di scegliere. Io non mi sono mai scoraggiata, le ragazze sono state contente di studiare, i sacrifici li hanno affrontati a cuor leggero. Guardi, tempo fa una collega era preoccupata per il figlio che aveva lasciato il lavoro per riprendere l’università. La incoraggiai a sostenere la scelta di suo figlio, credo di avere fatto bene. Poi, vuole sapere una cosa?

Certo. 
Entrambe le mie ragazze hanno figli. Una di loro rimase incinta quando aveva un contratto di lavoro precario. Alla scadenza il contratto fu confermato, al contrario di quel che era successo a me tanti anni fa. Significa che il mondo è cambiato, in meglio. Che le donne hanno più diritti. Ciò mi rende fiduciosa. E anche orgogliosa per le battaglie che noi donne abbiamo fatto.

Ringrazio Elisa Guidi e i lettori. Buona domenica, alla prossima.


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